La sentenza della Corte di Cassazione del 13 febbraio 2024, n. 5817, riguarda la validità probatoria delle dichiarazioni fatte in precedenza dall’imputato a collaboratori di giustizia, considerandole come confessione.

In questo caso specifico, un imputato condannato per omicidio come esecutore ricorre per cassazione lamentando che le dichiarazioni fatte dai collaboratori di giustizia non sono state utilizzate, poiché non è stato possibile esaminare direttamente la fonte primaria delle informazioni.

La Corte ribadisce che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia che riferisce confidenze accusatorie ricevute dall’imputato non rientrano nella nozione di “chiamata de auditu“. Nei casi di criminalità organizzata, spesso acade che il collaboratore di giustizia riferisca confidenze ricevute dall’imputato, senza violare il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato previsto dalla legge.

Inoltre, non è necessario esaminare direttamente la fonte diretta (l’imputato stesso) poiché non può essere chiamata a testimoniare contro se stessa. Le confidenze autoaccusatorie dell’imputato riferite da un collaboratore di giustizia sono considerate confessioni e possono essere considerate valide a condizione che si valuti la sincerità e la spontaneità delle stesse.

Nel caso specifico, le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia sono considerate valide poiché sono coerenti tra loro e concordano sul fatto che l’imputato ha assunto direttamente la responsabilità del reato.

In conclusione, la Corte di Cassazione, respinte le doglianze dell’imputato, ha sostenuto che i giudici del merito hanno valutato correttamente le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e hanno individuato punti di convergenza significativi in relazione al ruolo dell’imputato nel reato.

Avv. Andrea Severini